Non so dove andrò, avevo deciso di restare, la vista era meravigliosa da lassù, d’altronde ci sono nata e non conoscevo altro posto. Sono sempre stata in bilico, ma un tempo il legame con il posto da dove sono arrivata era più forte…nell’età verde. Da subito ha cominciato ad ondeggiare, di qua, di là, non sapevo cosa mi muovesse, era il mio modo di essere in sintonia con il soffio che ci attraversa, con il flusso del respiro che separa il tempo della luce da quello del buio. Non ho mai voluto o potuto decidere una volta per tutte, non me ne sono andata ma non sono neppure rimasta ferma; sapevo di essere in attesa e guardavo giù, attratta dalla profondità della via che mi ha sempre richiamato a sé.
“Il destino” diceva un passante, “il fato” rispondeva una lettrice scorrendo i fogli fratelli tra le sue mani, “è la sua natura” pensava un viandante solitario, “è sempre stata se stessa” ricordava una ragazza ascoltando l’eco di una melodia, “non ha mai potuto scegliere di essere altro” sospirava un anziano con la mente già lontana, “è sempre diversa” esclamava un donna stupita dall’ovvietà.
Ora cado, ma ora non ho paura, sono nata per ogni passaggio e non c’è altro arrivo di quello da dove ripartirò. Prima sì, durante l’attesa ero terrorizzata, paralizzata da ogni fiato che mi spostasse, trascinata da tutto, sentendo di non poter scegliere, ingabbiata nelle alternative che diventano decisioni subite, scelte senza scampo…l’unica certezza era che sarei caduta, eppure stranamente mi sentivo attratta dalla verticalità sotto di me. Ogni giorno ho indossato un’identità di colore diverso, cambiando con il mondo sulla mia superficie, senza confini tra interno ed estero. Ogni essere mi attraversava ma nessuno si fermava, non avrei potuto trattenerli, non sapevo cosa sarei stata il giorno dopo, come avrei potuto dire loro cosa avrei voluto un istante dopo?
Non è una caduta lineare, posso restare sospesa per un battito d’ali, farmi trasportare oltre, cambiare direzione, decidere un’altra meta non servirebbe, ho già deciso di essere dovunque andrò, è scritto nel mio DNA. Incoerente con l’identità e inscindibile dalla variabilità delle condizioni, fragile perché innestata su un caduco destino, indecisionista come una foglia che cade.
Se mi pensi in balia del vento, non hai occhi per vedere che volo via. Forse il riecheggiare di una poesia ti fa ricordare che vengo da una tragica schiera, in attesa di essere strappata via dalla linfa vitale, comparsa fugace di vetuste batracomiomachie. Quella è la storia in cui ti hanno convinto a specchiarti, la mia immagine invece non puoi immaginarla, la chiameresti forse foLlia.
Mi sono chiesta a lungo come spiegare la sensazione di risoluzione che ho sentito immediatamente nella parola “indecisionista”, parola intesa come lemma e come poetica di un gruppo che si vuole movimento artistico; d’altronde l’espressione “movimento artistico” dovrebbe essere una tautologia.
Mi sono sempre dichiarata rea confessa di “atti d’indecisione esistenziale”, detta più comunemente incoerenza associata alla sindrome da incostanza e, perché no, pigrizia connaturata. Stereotipi sociali trasmessi dalla morale degli applausi “alla fine del tunnel”: si è considerati degli “arrivati” quando si percorrono tutti gli step di una carriera-vocazione scelta una volta per tutte e conseguita con una determinazione che trafora le montagne. Sebbene poi l’ammirazione riconosciuta sia direttamente proporzionale all’idea di personalità come autodeterminazione, ovvero forza di volontà liberamente scelta al di là di ogni condizionamento, così come indirettamente proporzionale alla concezione della personalità come fato, antico stigma ereditato dalla vulgata pop-scientista della biologica genetica.
Paradossalmente, la contemporaneità che celebra il “self-made-human”, ipostatica la ricerca delle cause nella massima forma di fatalismo: quello dello script genetico, copione di ogni condizione scelta e subita, tanto da annullare il senso della distinzione tra le due. Chimera della predittività che anziché trascinarsi fuori dalla buia caverna dell’atavica lotta contro l’incontrollabile, ci ha contagiato con il panico della luce al neon che priva del rifugio nell’oblio del dover essere.
La teleologia della scienze biologiche sembra tendersi sempre di più ad identificare la causa con l’origine, ovvero il genoma come programma e programmatore; se tutto è determinato, allora occorre che possa anche essere determinabile, l’εἱμαρμένη dev’essere resa λόγος, la nuova eugenica del progetto Genoma umano apre la via alle tecniche della medicina personalizzata. Semplificare induce a ridurre, come tradurre porta a tradire: i concetti scientifici sono costruzioni teoriche funzionali a “sintetizzare” la complessità ed anche, anzi soprattutto, il passaggio dal genotipo al fenotipo è molto più complesso di una “trascrizione”, tra il dire e il fare…ipse dixit.
Negli ultimi vent’anni ha assunto sempre più rilevo un’altra disciplina, l’epigenetica, il cui spettro semantico si è molto evoluto rispetto al significo originario, tanto da aver assunto confini incerti anche nelle parole dei ricercatori che ne se occupano. Il termine rimanda etimologicamente al concetto di epigenesi proposto da Aristotele nei suoi trattari “proto-biologici”, ma è stato proposto nell’ambito della moderne scienze del vivente da Conrad Hal Waddington.
In maniera molto sommaria potremmo dire che l’epigenetica studia i meccanismi che rendono possibile la trasmissione da una generazione all’altra, di variazioni che plasmano l’insieme delle caratteristiche percepibili di un organismo (fenotipo), senza che vi siano variazioni al livello del DNA (genotipo); l’aspetto interessante è che tale indagine prende in considerazione anche la variazioni determinate da fattori ambientali, l’epocale agone tra determinato ed indeterminabile. Waddington, a metà del ‘900, aveva proposta un’immagine esplicativa paradigmatica: il “paesaggio epigenetico” che raffigura una sfera all’inizio di una valle solcata da rilievi ed infossamenti del terreno che condizionano la direzione della sfera nel suo corso attraverso la valle, inoltre gli avvallamenti del terreno, esposti agli agenti ambientali, sono suscettibile di cambiamenti.
Tale sarebbe la dinamica del passaggio del genotipo al fenotipo, ossia dello sviluppo di un essere vivente. Gli studi in tale settore nel frattempo sono progrediti tanto da rendere la metafora ancora più riduttiva, ma non meno evocativa. Eccoci tornati all’ambiente da cui siamo partiti, alle traiettorie irregolari, prese senza essere scelte una volta per tutte, all’indecisionismo di una foGlia.
di Alessandra Morini